E’ difficile scrivere con consapevolezza del mito sporco, polveroso, nero e brutalmente violento dell’epopea americana.
Per farlo, innanzitutto, bisogna prima spogliare il racconto di tutti i banali riferimenti accumulatisi come escrementi durante gli anni di Ford e di Hawks e del cinema western classico;
amputare al genere americano per eccellenza (il western, per l’appunto) le sue icone, e lasciarle a marcire nella stessa polvere a cui tutti siamo destinati.
Cowboy, indiani, sceriffi, la guerra di secessione, i fuorilegge, i bandidos, tutto l’immaginario comune a cui siamo abituati è solo un feticcio dalla grande macchina creatrice di sogni (e soldi).
Una mera bugia per mistificare e coprire il cuore oscuro e pulsante di una nazione fondata sul sangue, sullo sterminio e sulla schiavitù.
Narrazione tossica direbbe qualcuno;
eppure, se da una parte è confortante farsi ingannare dal sorriso sornione del Duca dall’altra, senza scomodare quel cane rabbioso di Peckinpah, è impossibile non accorgersi di come i migliori registi degli ultimi due decenni abbiano tutti fallito miseramente nel difficile compito di scrivere, e raccontare, cosa succede quando un coltellaccio affilato ti apre lo sterno dalla gola al bacino.
Eastwood, e i suoi Spietati (poco più che macchiette), i Coen, col loro ridicolo “Il Grinta”, Tarantino e il suo esecrabile “Django”, Dominik e la noiosissima trasposizione omofobica di “L’assassinio di Jesse James per mano del codardo Robert Ford”, o il recente “Revenant”, masturbazione manichea e futile esercitazione di stile utile solo ad incasellare Oscar.
Tutti, in un modo o nell’altro, pisciano fuori dal vaso, incapaci di toccare il lirismo, l’ermetismo e la gutturale violenza di Cormac McCarthy nel raccontare il west, e il mucchio sporco, analfabeta e selvaggio di diavoli e assassini che lo abitavano.
Tutti tranne Anderson, forse, unico ad affondare i propri denti nel ventricolo nero come il petrolio degli States raccontato in “There Will be Blood”, o Mann, anch’egli abbastanza coraggioso da far mangiare il cuore del suo nemico all’indiano Magua, interpretato dall’attore cherokee Wes Studi, presente anche in questo film.
Tolti dall’equazione questi due precedenti è forse necessario fare un salto cinematografico agli anni 80, e tornare al Vietnam, alla ferita suppurante e ancora aperta di una nazione, a quel viaggio inesorabile verso il Cuore di Tenebra del paese più potente e violento al mondo.
Solo allora, forse, è possibile ritrovare uno sguardo più lucido e altrettanto incredulo su quello che significava, e significa tutt’ora la parola “America”.
Cuore di Tenebra, dicevamo, come quello messo in scena da questo “Hostiles”, scritto e diretto dal capace Scott Cooper, già bravo a raccontare l’America rurale della Rust Belt nostalgica e razzista (vi ricorda qualcosa, stronzi?) e ora alla prese con l’impossibile impresa di girare un buon film western ai giorni d’oggi.
E in parte, ci riesce, e quando ci riesce lo fa in modo coraggioso.
“Hostiles” è un film violento, silenzioso, un lungo viaggio verso l’ipocrita e sanguinolenta origine della democrazia a stelle e strisce;
al pari di Marlow che scende lungo il Congo il protagonista intraprende un percorso in(es)teriore che lo porta a essere testimone e sopratutto protagonista di una violenza che non è mai nella natura, ma solo negli uomini che la abitano.
Incapace di essere archiviato, uomo di guerra e assassino, agente primigenio di quel progresso che tutto mastica, fagocita e sputa via, il protagonista del film è un capitano di fanteria dell’esercito che accetta di scortare il suo nemico giurato, il morente capo indiano Cheyenne Falco Giallo, verso la sua terra natia.
“Non ci abitueremo mai ai modi ruvidi del Signore” sussurra una Rosamund Pike protagonista dello sterminio della sua famiglia ad opera di un manipolo di Comanche; ed è questo, a ben pensarci, il vero veicolo del film:
La religione e le motivazioni etiche dell’uomo bianco diventano presto una ridicola giustificazione di fronte all’eccidio e al sopruso che gli uomini (fratelli) commettono su altri uomini (altri fratelli) in nome di un presunto e quanto mai fallace diritto di decidere cosa è giusto e cosa è sbagliato.
Caino e Abele, la storia che si ripete; nessun Dio a scusante del massacro sistematico messo in atto vero i nativi americani.
“Hostiles” sa bene quello che vuole raccontare, e lo fa egregiamente:
potente, diretto in modo saldo, con una fotografia epica ed incantevole che è messa sapientemente al servizio dei grandi spazi e dei personaggi che li occupano:
uomini di carne e sangue che si interrogano e si tormentano sul loro destino, sul cosa li abbia portati ad essere dei vuoti carnefici incapaci di impressionarsi per l’ennesima morte, ma che non appena ne hanno l’occasione non esitano a uccidere, stuprare, umiliare e prevalicare.
Un film non esente da difetti, è pur vero: se Rosamund Pike è la solita cagna a cui siamo abituati, è il finale melodrammatico che ci strappa dalle mani (callose) quella che doveva e poteva essere l’unica conclusione possibile della pellicola di Scott Cooper;
se questo “Hostiles” si apre con uno scalpo preso allora è così si doveva chiudere: col capitano Joseph J. Blocker che gronda sangue dopo aver squartato un vecchio proprietario terriero in virtù delle sue ritrovate e contraddittorie ragioni.
Da massacratore d’indiani ad assassino di “compatrioti”, tutto, purchè si uccida.
Difetti in ogni caso, che non hanno abbastanza peso per negarsi la visione di un film che colpisce duro e che fa riflettere, e che ci racconta quel cuore nero, violento, rabbioso, da cui tanto siamo affascinati.